Tra le numerose band della scena musicale scandinava, i Kvelertak emergono come una forza tumultuosa. Nella Norvegia dei fiordi e delle notti senza fine, il metal estremo è senza dubbio uno dei generi più frequentati, ma pochi lo suonano con la loro audacia e originalità. Per certi versi ricordano i Refused di The Shape fo Punk to Come per la capacità di tenere insieme generi che all’apparenza sembrano inconciliabili. Con loro il punk si sposa con il black metal, l’hardcore si mescola con il rock and roll, andando a formare un sound incandescente che sfugge a ogni facile categorizzazione – tanto che la definizione di black and roll che è stata appiccicata loro addosso agli esordi in fin dei conti è riduttiva.
Come se non bastasse, i Kvelertak si dimostrano audaci anche a livello linguistico. Invece di cantare in inglese come tutte le band della loro regione, hanno scelto di scrivere i loro testi in norvegese (anzi, nel dialetto parlato nel sud della Norvegia). Una scelta radicale, che è una vera e propria dichiarazione di indipendenza: poco importa se all’estero nessuno capisce quello che cantano – dopotutto, la musica è un linguaggio universale e le parole non sono altro che un ulteriore veicolo per trasmettere emozioni.
Il successo crescente dei Kvelertak ne è la dimostrazione. I loro primi tre album – Kvelertak (2010), Meir (2013) e Nattesferd (2016) sono stati accolti con grande entusiasmo grazie anche al carisma del loro frontman, Erlend Hjelvik, le cui performance aggiungevano quel tocco di follia e ironia che rendevano irresistibile il magma sonoro proposto dalla band. Quando questi e il batterista Kjetil Gjermundrød hanno abbandonato la band nel 2018, però, molti fan – non a torto – hanno pensato che l’avventura dei Kvelertak fosse giunta al termine. L’ingresso del batterista Håvard Takle Ohr e del cantante Ivar Nikolaisen è stata però una mossa vincente. Entrambi si sono integrati alla perfezione con i chitarristi Vidar Landa, Bjarte Lund Rolland e Maciek Ofstad, e il bassista Marvin Nygaard, portando in dote una maggiore versatilità, permettendo alla band di esprimersi con ulteriore ecletticità.
Superata quindi la prova del nove con Splid nel 2020 – disco che ha portando una maggiore vena melodica e un’inedita escursione in territori post punk – con Endling i Kvelertak hanno potuto, dal punto di vista compositivo, rilassarsi, non avendo più nulla da dimostrare. Registrato nella città costiera norvegese di Bergen nell’ottobre 2021, Endling è uno dei tanti album figli del Covid uscito in questi anni. Ma attenzione, i primi a voler scacciare ogni tipo di autocommiserazione sono i Kvelertak stessi – dopotutto, ha detto Vidar Landa, «è successa la stessa cosa a tutti». Anzi, hanno approfittato del periodo di riposo forzato per vivere con ancora più intensità quel rapporto che ogni buon norvegese ha con la natura circostante (basta leggere il Karl Ove Knausgård de L’isola dell’infanzia per farsene un’idea), andando anche ad esplorare il folklore della loro regione.
In Endling, però, non c’è “roba da vichinghi” alla Amon Amarth – nessun Yggdrasil che collega i nove mondi, nessun Thor che scaglia Mjölnir contro i giganti, nessun Ragnarok durante il quale si combattono dèi e mostri –, bensì racconti oscuri basati su personaggi minori vissuti nel sud della Norvegia le cui gesta sono tramandate oralmente solo da uno sparuto numero di persone ora ultra ottuagenarie, oppure stampate in libri dalla ridottissima circolazione scritti da storici locali. Una delle figure la cui storia ha ispirato la maggior parte delle canzoni dell’album è quella di Helmut von Botnlaus, un eremita norvegese – di cui si hanno pochissime notizie, tanto che nessuno sa con precisione se attualmente sia vivo o morto – che si batte contro la modernità per preservare la natura del proprio paese.
Prodotto dalla band assieme a Jørgen Træen, Yngve Sætre e Iver Sandøy – «con tre produttori abbiamo potuto lavorare 24 ore su 24», ha detto Vidar Landa – e registrato completamente dal vivo con pochissime sovraincisioni, Endling si apre con “Krøterveg Te Helvete”, i cui primi quattro minuti strumentali vedono la band alle prese con una sorta di riscaldamento, prima di esplodere in tutta la sua potenza nella seconda parte. “Likvoke”, invece, mette insieme Black Sabbath e Judas Pries, “Motsols” è suonata con una sfacciataggine punk degna degli Hellacopters, mentre “Døgeniktens Kvad” si apre con dei blast beat black metal che a sorpresa sfociano in un riff di banjo! Come se non bastasse, “Endling” sembra una canzone degli Husker Du, “Skoggangr” vede le chitarre duellare come i Thin Lizzy prima di un break che sembra preso di peso da un disco dei Queen di metà anni Settanta, “Svar September” ha qualcosa dei Rolling Stones ma sotto anfetamina, mentre la conclusiva ed epica “Morlid” ricorda alcune cose dei primi Mastodon e dovrebbe essere presa da esempio dagli attuali Iron Maiden per capire come si utilizzano tre chitarre soliste.
Per i Kvelertak non era facile dare un degno seguito a Splid, ma con Endling ci riescono alla grande. Il risultato è un disco ambizioso, un vero e proprio viaggio nelle profondità dell’animo umano e della natura. Forse non sarà un album sorprendente come lo erano stati i primi tre – che avevano contribuito a mettere la band sulla mappa del metal contemporaneo –, ma senza dubbio è un lavoro che testimonia l’ambizione e il talento dei Kvelertak, consolidandone al tempo stesso l’identità sonora.